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24 settembre 2012 / miglieruolo

Maria Carta e la speranza

Maria Carta e la speranza
di Mauro Antonio Miglieruolo

Sul numero del 22 settembre del Fatto Quoidiano (rubrica il Fatto di Ieri) la giornalista Giovanna Gabrielli lamenta la dimenticanza in cui è caduta la “regina del folk sardo” Maria Carta.
Mi unisco al rammarico implicito nel trafiletto. Mi unisco pur ammettendo, ahimé! di essere inavvertitamente (?) scivolato nella disattenzione che accomuna tutti: anche io aveva cancellato dal catalogo delle buone cose italiane

questa straordinaria interprete delle melodie ancestrali della mia (e nostra) terra. Terra di Sardegna, ma anche terra Italica, simbolo delle tante melodie ancestrali che hanno segnato e caratterizzato il mondo rurale del non tanto remoto passato.

Approfitto della circostanza per effettuare due precisazioni. Superflue probabilmente per la informatissima Gabrielli e tanti suoi lettori; utili per me, amante della musica popolare della tradizione, in quanto mi permettono di esprimere un ricorrente pensiero molesto: la scarsa o nulla presenza di questa musica nel panorama culturale vigente. Per trarne le dovute, opportune riflessioni.
A tale fine mi occorre precisare che Maria Carta non cantava del dolore di ieri, ma quello di oggi. Per questo (oltre che per la voce e il talento musicale) riusciva a essere efficace. Lo stesso vale per i tanti altri che, al loro livello, hanno tentato, con alterno successo, di effettuare la medesima operazione (Compagnia di Canto popolare, Otello Profazio, Giovanna Marini ecc. ecc.).
Di tutto questo non indifferente addentrarsi nel recupero della tradizione musicale oggi è rimasto ben poco. Ch’io sappia, a parte le Notti della Taranta, che perà è già la contaminazione e sovrapposizione del presente sul passato (quindi una cosa nuova), un suo assoggettamento al gusto corrente, null’altro esiste. Suoni e inflessioni di tanto tempo fa, mondo urbano e mondo contadino, non vengono più presi in considerazione, o quasi. Queste inflessioni i media le ignorano proprio. Utilizzando il pretesto del “gusto della gente” (in realtà precisa operazioni culturale, dettata da un orizzonte offuscato dalle nebbie del modernismo) lasciano che imperversi la devastazione delle radici comuni.
Negli anni ottanta e poi novanta costoro sono riusciti nella non nobile impresa di travolgere una gloriosa tradizione (guarda caso, gli stessi anni in cui è stato travolto ogni idea di un possibile (illusorio) capitalismo dal volto umano). Oggi su Internet è possibile trovare oceani di musica popolare di altri paesi, quasi nulla di quella italiana. Non parlo della sola musica del passato, ma anche della possibile musica del presente: altrove invece la tradizione resta viva, di musica folk si produce ancora. Vedi ad esmpio quella celtica (su Internet ho trovato migliaia di CD codificati), la bulgara, polacca, russa, cajun, bluegrass, country, fado, klezmer ecc. ecc. Quasi nulla però dall’Italia. Nella quale paradossalmente ve ne sono (gruppi e singoli) che producono quella degli altri (la celtica, ad esempio: ho conosciuto uno di tali eminentissimi sciagurati, che lo faceva pure bene), ma che si vergognano di inoltarsi nella tradizione della sua terra. Si vergognano, oppure non sanno come farlo, estranei come sono al corde profonde del paese in cui pure sono nati.
Un mio amico al quale avevo cercato di trasmettere queste e altre simili ambasce, mi ha fornito un punto di vista illuminante dal quale partire per dare senso a questo pezzo improvvisato. Secondo questo amico il folk italiano su Internet è introvabile in quanto non esiste. Non esiste alcuna accettabile tradizione musicale italiana. A parte il saltarello, per lui insopportabile proposta di uan sua vecchia zia, centinaia di anni di cultura non avrebbero prodotto altro che quella insopportabile ballo di cui non sapeva che farsene. Nonché, certo, la nobilissima canzone napoletana, comunque morta e sepolta da anni.
Mi domando ora se questo vuoto (vuoto nelle menti, vuoto nella rappresentazione, non nella realtà), questa cesura con il vecchio che sempre chiede di diventare nuovo (tocca ai nuovi realizzarne la tendenza), abbia qualcosa a che fare con la generale vocazione alla desertificazione culturale che i malfattori che ci governano stanno ponendo in atto (con rilevante successo). E possibile addirittura che abbia anche a che fare con l’abisso economico e sociale in cui, nonostante gli illusionismi conditi di sacrifici a senso unico di Monti & Company, stiamo per precipitare?
L’anima bottegaia dunque avrebbe vinto la sua battaglia con quella artigiana; l’incultura programmatica (con la cultura non si mangia) coperto le ragioni della ragione! Probabilmente sì.
Non a caso la nuova stagione di trionfi della reazione può essere ricondotta alla decisione del signor Veltroni, cavalletta diessina, novello Attila dietro il quale non erano più possibile libri, che con un colpo solo e in un solo giorno distrugge l’opera decennale del PCI nell’edificare biblioteche alle quali potessero attingere gli incolti che desideravano acculturarsi (non sia mai detto, vade retro Satana! Acculturarsi, c’è il caso che poi non si riesca a tenerli più a bada! Senza comtare l’indegnità di biblioteche infarcite di libri marxisteggianti!). Tra i tanti meriti (e molti demeriti) bisogna riconoscere al PCI l’ostinata opera di sussidio delle volontà di emancipazione (promuovendo questa volontà, quando necessario) delle masse. Imperdonabile vocazione: Veltroni infatti non gliel’ha perdonata.
Via, tutto al macero!
La diffidenza verso i libri non è solo di matrice nazista. E’ il fondo di vergogna che vanamente un certo tipo di cultura, oggi dominante, tenta invano di nascondere.
Parafrasando allora Maria Carta che raccontava della propria paura delle ombre, metterò avanti la mia paura. Paura delle ombre della reazione, che per ora si accontenta di spolpare, domani vorrà anche vessare. Torturare. Uccidere. Pansa, pensate un po’, è uno dei primi a fare eco a queste paure; a mettere sull’avviso su una possibile uscita dalla crisi tramite colpo di stato militare.
Poiché purtroppo non ho neppure un grammo delle doti di Maria Carrta, queste ombre non sono in grado di esorcizzare. Non resta che confidare (la speranza è l’ultima a morire) che altre canzoni, o altre grida, si levino per prevenire e neutralizzare l’infernale tendenza alla quale fin’ora non siamo riusciti a sottrarci. Queste canzoni e queste grida, indotte dalla disperazione, iniziano a levarsi dal fin’ora negletto mondo del lavoro. Ma sono ancora troppo flebili.
E’ comunque a loro, alla volontà di riscatto dei lavoratori, che affido la possibilità di nuove melodie, lo schiudersi di orizzonti privi di ombre. Privi di terrore.
Ma presto, subito. Prima che i mostri che operano tra le quinte, escano allo scoperto e divorino quel poco di noi che resta da divorare.

One Comment

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  1. cristina bove / Set 24 2012 15:59

    un tuffo nella mia giovinezza!

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