Insurrezione e narrazione… 4
(segue dal 10 giugno)
Nella sua Storia d’Italia, Benedetto Croce si chiede se era possibile o concepibile che «la prima regione d’Italia, in cui il socialismo marxistico e rivoluzionario parve fare le prime prove pratiche e discendere alla effettiva rivoluzione fosse la meno industriale, la meno progredita, la più distaccata dal resto d’Italia, la Sicilia» [Renda]. In realtà, i primi a non considerarlo concepibile furono proprio i socialisti. Il meccanicismo positivistico è come un mantra:
industrializzazione, civiltà, progresso. Al congresso di Reggio Emilia del 1893, mentre in Sicilia da oltre un mese è in corso lo sciopero agrario in quattro province, i socialisti assumono un punto di vista sulla questione delle campagne assolutamente “operaista”: «sorvegliare e dirigere l’azione economica del partito, specialmente fra gli operai di città e di campagna». Gli operai di campagna. I contadini sono guardati con sospetto: «nei nostri paesi dell’Italia media, ad esempio, dove fra gli agricoltori sono rari i giornalieri, ove vige su larga scala il contratto di mezzadria, ove la piccola proprietà agricola è ancora abbastanza estesa, la propaganda nelle campagne incontra gravi difficoltà, per quel relativo benessere in cui si trovano gli abitanti rurali; benessere che li tiene asserviti alla borghesia, la quale usa del contadino come strumento per mantenersi a capo delle pubbliche amministrazioni e per continuare l’opera di sfruttamento a danno delle classi lavoratrici». [Renda] È un giudizio durissimo, ovviamente non condiviso da tutto il Congresso. Si parlò di cooperative agricole per la coltivazione in comune delle terre; di cooperative per l’acquisto dei concimi e l’uso in comune di macchine agricole; di depositi di prodotti che permettessero di anticipare parte del loro valore ai mezzadri e ai piccoli proprietari, e di vendere poi i prodotti stessi nei momenti più opportuni. Tutte cose, peraltro – cooperative di consumo e spacci alimentari – che i Fasci stavano già ampiamente sperimentando. Ma una decisione vincolante congressuale non fu presa e il dibattito – che implicava e si sovrapponeva a quello dell’alleanza tattica con altri partiti per le elezioni – fu rinviato. I Fasci restarono soli. Tra il 1888 e il 1895, in Sicilia esplode il dramma della crisi agraria, che non è solo del grano ma anche del vino, per via della guerra tariffaria con la Francia, e si intreccia a quella dello zolfo, per via del prodotto americano. A partire dagli ultimi mesi del 1892 la situazione diventa intollerabile. De Felice, al processo, dirà che il raccolto dei grani del 1892 e del 1893 fu inferiore del 44 percento, e tutti gli altri di un terzo e un quarto. E qui si colloca la diffusione straordinaria dei Fasci nel contesto rurale, con l’adesione a essi non soltanto dei braccianti, ma anche di una porzione considerevole dei mezzadri e dei piccoli proprietari e di
settori non irrilevanti di piccoli proprietari pesantemente penalizzati dalla crisi. Ad organizzarli «centinaia di giovani professionisti e studenti universitari siciliani, espressione di un fenomeno che negli ultimi anni del secolo vede settori certamente minoritari ma non insignificanti della gioventù studiosa siciliana abbracciare la causa del riscatto della loro terra» [Fedele]. Eccolo, il «dramma della generazione» di Pirandello. Il dramma di chi si affaccia al mondo e incontra qualcosa che mai s’è veduto prima. I Fasci non sono un fenomeno dell’arretratezza – i processi di urbanizzazione si accompagnano a quelli di ruralizzazione – delle campagne, né un fenomeno epigone di un Risorgimento “incompiuto”, ma un’intuizione straordinaria sulla crisi e sul conflitto: lo scontro non è solo tra classi, ma direttamente con lo Stato – con la richiesta di abolire o ridurre le tasse comunali, sciogliere le amministrazioni locali –, non c’è mediazione dei partiti ma immediato protagonismo di masse popolari, e, soprattutto, utilizzano la piazza come luogo naturale ove la lotta trova il modo di esplicarsi in tutto il vigore. È la lotta di strada. È il tumulto. È l’insurrezione. Tra il 1891 e il 1893 le contraddizioni politiche tra classi dirigenti dello Stato, la crisi economica, la crisi finanziaria, la recessione, e l’affacciarsi di una “cosa” che mai si era vista prima, un movimento sociale composito e insorgente, si concentrano tutte in un territorio. Tutto si aggroviglia lì, in Sicilia. «Sapeva, sì, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione improvvisa, prodigiosa!» [I vecchi e i giovani, p. 170] Tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Un prodigio, in Sicilia! Ma i socialisti cercano soprattutto di allontanare da sé l’accusa di avere parte, diretta o indiretta, nei tumulti popolari. Salvemini sarà spietato: «La jacquerie del ’93 fu una convulsione isterica, nella quale il socialismo ci entrò solo perché, essendovi nel resto del mondo un partito socialista rivoluzionario, questi affamati saccheggiatori di casotti daziari credettero di essere socialisti anche essi». I Fasci rimangono soli. I contadini rimangono soli.
Quando ormai le stragi di contadini sono diventate quotidiane, lo stato d’assedio è proclamato, i dirigenti e i militanti dei Fasci sono già in prigione, Eduardo Boutet – un giovane brillante critico teatrale napoletano molto letto e seguito – pubblicava nel «Don Chisciotte» di Roma del 7 gennaio 1894 un articolo dal titolo: Sicilia verista e Sicilia vera. È un attacco frontale, senza riguardi, contro i grandi vecchi del verismo, del romanzo realista, Capuana e Verga: «E voi scrittori siciliani, di novelle, di bozzetti, di macchiette e via, perché ne’ vostri libri, non avete narrate quelle sciagure? Luigi Capuana e Giovanni Verga hanno sempre dichiarato che essi riproducevano, dall’ambiente al carattere, il vero. Tutto e solo per la verità. Né è stato consentito mai il dubbio sulla validità del documento. Si era convinti e persuasi, perché dubitare della sincerità?, che quelle creature rese poi addirittura popolari nel mondo dalle note di Cavalleria Rusticana, fossero così e non altrimenti. E si giurava che quella era la verità, tutta la verità, niente altro che la verità: Cavalleria rusticana, e Santuzza, e Turiddu e compare Alfio, con relative piccole sventure di persone, non tragedie di popolo, anzi gente di buon augurio in fondo. Ma ecco i fatti di Sicilia. Quella letteratura speciale e caratteristica, dove aveva trovato i suoi documenti? Il vero… il vero come? il vero dove? Quelle macchiette, quei bozzetti, quelle novelline di dove fiorivano? Quale fosse il martirio precisamente de’ contadini proprio di quelli che fornivano il modello secondo tutte le Cavallerie rusticane del genere, si vede nei tristi casi di questi giorni. Altro che compari Turiddu e compari Alfio, e morsetti all’orecchio e male pasque a te e a me! Basta la storia squadernata al sole della sola zolfara per sentirsi spezzare l’anima. Invece compare Alfio se ne veniva a cantare allegramente alla ribalta: Oh, che bel mestiere fare il carrettiere. Ecco, è chiaro. Vuol dire che la Sicilia degli scrittori che riproducevano dal vero, è diversa, assai diversa, dalla Sicilia vera: popolo che soffre tutti gli strazi e tutti i soprusi, e che cerca nella morte la fine de’ patimenti più infami e più ingiusti. Vuol dire che la Sicilia-Cavalleria Rusticana, nella quale si può riassumere la macchietta, il bozzetto e la novella, era una Sicilia esercitazione letteraria, quindi retorica nel metodo, e nel fine una Sicilia d’osservazione in prima pelle, o in quanto si presta alla grazietta accademica e nulla più: di maniera. Vuol dire che quegli scrittori hanno forse tutte le doti di artisti, non mi riguarda, ma quando gridano di riproduzione dal vero non sono esatti: si sono fermati a’ giubbetti ed ai fioretti, e nelle anime non hanno guardato: se le anime avessero vedute e sentite ben altro dovere avrebbero dato alla loro letteratura. Con i carusi non si fanno i volumini gingilli e le illustrazioncelle civettuole pe’ salottini rococò!» Boutet – che di sicuro ha letto i reportage di Rossi e ne è rimasto impressionato – sembra dire due cose e non soltanto una a Capuana e Verga. La prima, che la loro narrativa non fosse poi davvero veristica, non fosse cioè capace di intercettare la realtà del tempo; la seconda, che si fosse fermata alla superficie dei fatti e dei personaggi, senza guardare dentro le loro anime. Entrambe, la superficialità e il manierismo dei narratori siciliani che, in quel momento, sono «la» letteratura nazionale, a me però non sembra colgano il punto. L’antagonismo fra scritture non poteva ridursi – e questo è un argomento che ancora oggi ci pertiene – tra reportage giornalistico aderente alle cose e narrazione dove la verità dei fatti si mescola alla finzione. Il vero… il vero come? il
(segue il 12 giugno)
Rispondi