Vai al contenuto
9 marzo 2012 / miglieruolo

Risposta a Monica Lanfranco

Ritengo che qui, come altrove, vi sia una sovrapposizione di problemi diversi. L’assunzione di un principio etico di per sé, non articolato per fornire risposte concreta a situazioni concrete.
Una cosa infatti è l’etica,

ben altra i processi reali attraverso cui la storia prende corpo; attraverso cui gli uomini regolano i conti tra di loro. Il principio deve trovare riscontro nella realtà, non può ignorarla, non può non tenerne conto. Il prezzo di questa eventuale omissione è l’inefficacie dei principi; anzi, la loro estraneità rispetto le circostanze alle quali li si vuole applicare.
I piedi ben piantati in terra: vi sono dinamiche di trasformazione regressive contro le quali non basta prendere posizione, ma occorre anche completare con l’azione. Ora, il conflitto sociale, non per volontà degli sfruttati e oppressi, è molto più che una guerra. La guerra conosce momenti brevi di sospensione (gli armistizi), quelli più lunghi di interruzione (chiamati periodi di pace); la guerra sociale invece è permanente, senza sosta, coinvolge tutti ed è combattuta senza regole. Anzi la sua prima regola non è solo di ignorarle, se possibile, ma anche di eliminarle (eliminare le regole per eliminare la possibilità si costituisca un fronte di resistenza). Inizia con la nascita, con un carico iniquo di handicap per il quale ha senso parlare di peccato originale, il peccato di essere nato all’interno di una certa classe o con attitudini non in linea con le richieste della classe dominante; e finisce con la morte, le cui modalità ugualmente differenziano gli uomini. Tra i tormenti alcuni, persino con la possibilità di porvi termine secondo i propri intendimenti altri (i Papi in primo luogo).
Ogni contatto tra Datori di Miseria e Lavoratori ne è un episodio: continuazione e fine della sterminata serie di episodi che hanno portato a quell’incontro, in quelle determinate condizioni. Non per cattiveria dei componenti della Classe Dominante (se così fosse una speranza minima di influenzarla con argomenti morali potrebbe sussistere), ma per necessità oggettive che trascendono la volontà dei suoi componenti. I Capitalisti, presi individualmente, possono anche essere uomini probi, di buon cuore, amanti della giustizia, capaci di non infierire. Di questi uomini registriamo la presenza tutti i giorni. Ma questi stessi uomini sono subordinati a leggi che li trascendono, che alla lunga, se insistono a inseguire i principi etici o le buone inclinazioni personali, tendono a marginalizzarli dal “mercato”.
Ho detto leggi. Avrei dovuti dire dinamiche: la dinamica propria alla “legge” che si chiama “accumulazione” che è consustanziale al capitale. Che non può essere elusa. Anche quando si convincesse la stessa Classe Dominante di un paese a accantonarla (miracolo che richiede non l’intervento di un Santo, per quanto potente, ma di Dio Onnipotente in persona), non si farebbe altro che portare quel paese alla rovina. Anche se Lenin redivivo venisse incaricato di governare l’Italia e con lui i più accesi rivoluzionari del mondo, il povero Lenin dovrebbe rassegnarsi a fare gli interessi del Capitale (temperando solo gli eccessi dei tecnici carogna attualmente in auge), oppure essere travolto degli avvenimenti. A meno di non prendere in mano la frusta e scacciare i mercanti dal tempio. Operazione che nessuno può illudersi possa essere indolore. Può essere allora che i non-violenti lo siano (illusi) anche perché soddisfatti dalla mera prospettiva di temperare il capitale, che ci riescano o meno? Più o meno consciamente consapevoli che con la non violenza oltre non è possibile andare? Rassegnati che voglio indurre alla rassegnazione chiunque tentato di ribellarsi? Malignità che è più di una malignità: è già quasi un’analisi.
E’ impossibile, a me sembra, non vedere che la violenza permanente esercitata contro la classi subordinate (utilizzo il minuscolo proprio perché queste classi accettano di esserlo, non ancora classi maiuscole, classi di per sé), assume i connotati suoi più specifici a principiare dal Contratto di Lavoro. Il Contratto di Lavoro: sopraffazione istituzionalizzata, violenza del più forte contro il più debole, finzione intollerabile che simula l’incontro tra uguali, pur sapendo che sono disuguali. Tutta la società è costruita per permettere a questo ricatto continuo che è il contratto di lavoro possa essere e mantenersi. L’intimidazione del manganello non è che l’espressione aperta di ciò che è già implicito: o muori di fame o accetti di sopravvivere alle mie condizioni. Condizioni che divorano la dignità umana, la possibilità di crescita dell’individuo, i concetti stessi di equità e giustizia.
Questo senza contare la violenza quotidiana sui corpi. Le vite spezzate dai troppi incidenti sul lavoro, le mutilazioni, le malattie, l’avvilimento per le assurda spropositata sopraffazione messa in atto sui posti di lavoro, l’assenza di prospettive che portano molti lavoratori alla depressione e al suicidio (alla depressione e al suicidio quando si ha il lavoro: alla depressione e al suicidio quando non si ha il lavoro). Aggiungiamo a questo le beffe degli ideologi del capitale, economisti, giuslavoristi e giornalisti, e il quadro è completo. Un universo di violenza rispetto al quale appaiono quantomeno inappropriati se non risibili gli interrogativi etici; e, peggio, le condanna implicita o esplicita, delle manifestazioni di insofferenza che è inevitabile che simili condizioni producano. E mi induce a esclamare, mio dio quanta dabbenaggine!
Ma io non voglio esclamare, voglio capire. Capire perché vi siano persone alle quali spetta stima che però rifiutano di vedere e di SENTIRE tutto questo. Tutto questo dolore, evitabile e però inevitato. Perché queste persone oppongono nel loro argomentare affermazioni apodittiche quali “ la violenza intelligente è un ossimoro”. Chi lo dice che la violenza sia intelligente? Chi lo dice sbaglia: sbaglia indirizzo. Sbaglia argomento. La violenza è stupida, non c’è dubbio. Manifestazione di primitivismo, ennesimo torto che si fa alle masse. Sulle spalle di quest’ultime cade, attraverso di essa vengono educate. Con il corollario dell’ulteriore violenza di non lasciar loro altra strada, non solo per emanciparsi: per sopravvive! che alla violenza (ennesimo torto, ennsimo dolore). Ma come opporsi all’aggressore stupido se non volgendo contro di lui la stessa aggressione? O quel che si propone è di rinunciare alla difesa della propria incolumità e dignità, insieme a quella della famiglia e della comunità tutta?
La violenza è conseguenza di condizioni di vita insopportabili; è l’essere costretti in una condizione dalla quale si può uscire solo ribellandosi. Non dunque mera risposta alla violenza si tratta, ma il volersi sottrarre alle condizioni di insopportabilità imposte dal capitale con ogni tipo di violenza: materiale, ideologica e psicologica.
Sia chiaro: coloro che soffrono questa violenza è impossibile capiscano chi rifiuta di capirli. Trovo persino ripugnante che vi sia qualcuno che chieda loro di rinunciare alla difesa. Poiché le si priva della possibilità stessa di temeprare le condizioni di oppressione e sfruttamento, temperabili solo con azioni ponderate, misurate, di autodifesa. Le masse non abbisognano di prediche, di affermazioni grandi principi, che hanno bisogno di indirizzi, di proposte, di indicazioni concrete e credibili che portino al cambiamento. Hanno bisogno di strategie, non di riproposizione di quel che dovrebbe essere, ma non è.
Mi si dice che abbia scritto Vendana Shiva: la pace non si crea dalle armi e dalla guerra. Giusto. Ma non abbiamo il problema di stipulare una pace, magari potessimo. Abbiamo il problema di vincere la guerra secolare scatenata contro di noi e che oggi conosce una inaudita intensificazione. Forse dopo la fine di questa guerra, se la vinceremo, forse, sarà possibile concepire condizioni di pace effettiva.
La proposta alternativa, rispetto alla realtà di questa guerra, che miete quotidianamente morti e feriti a migliaia, quale sarebbe? Quella di astenersi dall’intervenire? Di porgere l’altra guancia? Dire: mi chiamo fuori, tutto questo non mi appartiene?
Sto forzando il pensiero di tanti che invece aderiscono al credo non violento? Può essere. Me ne scuso preventivamente. Ma mi si risponda almeno a questa ulteriore interrogativo. Vedo un prepotente che molesta un innocente. Tento di dissuaderlo con le buone maniere, ragionando e chiedendogli di interrompere le molestie (che intanto l’innocente continua a subire), ma visti inutili i miei sforzi lascio che le molestie giungano a compimento (limitandomi a voltare le spalle per non assistere allo scempio)? Oppure intervengo utilizzando i mezzi opportuni per far interromperne la continuazione?
Non importa rispetto a questo interrogativo che l’innocente abbia quattro anni o quaranta. Che si tratti di un bambino o di un onesto lavoratore, che ha dato l’intera sua vita per quel lavoro e adesso gli si impedisce di ricavarne anche i mezzi minimi di sostentamento. Che importa se l’aggressore è un pedofilo o un tecnico carogna male intenzionato a privare dell’innocenza il soggetto in questione? Se l’uccide materialmente o l’uccide pur senza toglierli la vita? Lo confesso: la violenza su un minore suscita in me il medesimo sdegno che quella su un lavoratore. Anche perché nel primo caso se ne uccide uno (poi quel bambino, nel migliore dei casi, continuerà a vivere, ma una vita diversa da quella che gli sarebbe spettata); e nel secondo più di uno (un’intera famiglia, un intero gruppo di innocenti).
Ma io sono un’anima candida, si sa, a più di tanto non arrivo.
Fatemi arrivare voi a questa comprensione, per favore. Rispondete con parole nette all’interrogativo, senza sfuggire la responsabilità di dichiarare tollerabile o comunque prolungabile un regime di violenza continua. Lo posso ammettere che scegliate i tempi infiniti dell’evoluzione umana, di quando gli umani ascenderanno all’altezza della loro umanità, decine di migliaia di anni di attesa; e ammettere a cuore più leggero, quindi, di discutere con voi con parole leali e sincere della vera posta in gioco. Il rinvio sine die della violenza effettiva degli sfruttatori sugli sfruttati. Altrimenti, perdonate, senza queste parole nette e questoporre sul tappeto le vero poste in gioco (cioé il rifiuto della ribellione degli oppressi e l’accettazione implicita dei metodi degli oppressori: che è sostanzialmente ciò che gli agenti del capitale chiedono e affermano: la legittimità della violenza di stato) è inevitabile sorga il sospetto che la petizione di principio sia mera copertura dell’occulto cinismo, che si vuol rendere invisibili a se stessi. Che tale petizione di primncipio sia resa possibile aprendo le porte all’ipocrisia. Che sia guidata e accompagnata da una indignazione non vera, in quanto disposta a tollerare l’intollerabile. In nome della non violenza si tollererebbe una violenza spropositata che per altro cresce di giorno in giorno.
Il che mi induce a sostenere (scatenatevi pure): non solo ipocrisia: anche non voluta, sconsiderata complicità.
Mauro Antonio Miglieruolo

* * *
Ecco il post al quale la presa di posizione precedente costituisce la risposta. Vedi:
http://danielebarbieri.wordpress.com/2012/03/08/non-ce-mai-una-violenza-giusta/
***
Non c’è mai una violenza giusta

A proposito del saggio di Luisa Muraro su «Via dogana»
di Monica Lanfranco

«Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone» è una frase della femminista e poeta afroamericana Audre Lorde.

Indica una strada, offre una suggestione che è anche traccia precisa per costruire una visione: non si dismette un sistema se lo si imita, adoperando i suoi strumenti, seppur sostenendo che è a fin di bene e che i nostri fini sono nobili e alternativi.

Chiaramente lo dice, conoscendo da vicino la fascinazione erotica simbolica e concreta della violenza anche Robin Morgan, altra grande pensatrice nordamericana vivente, nel suo «Il demone amante», che nella prima traduzione italiana aveva per sottotitolo «sessualità del terrorismo».

Morgan chiede alle donne, specie a quelle di sinistra, di interrogarsi sul fascino che esercita sul genere femminile la violenza rivoluzionaria incarnata dal condottiero che parla del futuro regno di miele imbracciando un fucile dal quale non spuntano fiori, e per il quale la (sua) violenza è giusta perchè il sistema oppressivo è da abbattere.

In questa logica il fine giustifica i mezzi, pur se identici a quelli del potere dominante.

Morgan invita anche a riflettere sul fatto che una democrazia, se nasce da un gesto di violenza (fosse anche quello di uccidere il dittatore più odioso) porterà comunque i segni di quel sangue versato. Dal letame nascono i fior, non dal sangue.

Nel 2003 Maria Di Rienzo ed io (che ero reduce dal drammatico G8 in qualità di portavoce del Genova Social Forum per la rete delle donne) scrivemmo il primo libro italiano che intrecciava pratica e pensiero femminista e nonviolenza: «Donne disarmanti-storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi».

Con chiarezza sostenemmo che non era vero che le donne in quanto tali erano meno violente degli uomini: dire che per natura non siamo portate alla violenza era, ed è, uno stereotipo e una trappola patriarcale.

Portammo esempi di storia antica e recente in cui le donne avevano scelto la nonviolenza come strumento politico perché nella relazione conflittuale (ma non nella violenza che vede dall’altra parte un/una nemica) c’è l’unica strada per uscire dalla logica del mors tua – vita mea.

Raccontammo le strade di dialogo e di conflitto praticate dalle Donne in nero (dal cui lavoro tra l’altro originò il bel testo «Vita tua-vita mea»), da quelle di «Not in my name», dalle attiviste indiane seguaci di Vandana Shiva, dalle suore incarcerate e poi assolte in Inghilterra contro la costruzione dei caccia Hawk 955, della voce non incarnata di Lisistrata che fonda la diplomazia contro la guerra maschile e patriarcale.

Nel frattempo giravo l’Italia ospite di piccoli e grandi gruppi di donne, ma anche misti, che in tutto il Paese creavano spazi di elaborazione del lutto per le violenze del G8, che ancora oggi resta una ferita aperta non solo nella democrazia, ma anche dentro ai movimenti per alcune derive militariste interne.

Da allora ho cercato sempre di ricordare che prima del luglio 2001 c’è stato un mese prima PuntoG – Genova, genere, globalizzazione – uno straordinario evento di due giorni e mezzo nei quale (attraverso in particolare le parole di Lidia Campagnano) si era anticipato con lucidità profetica non solo l’arrivo della crisi, ma il realizzarsi di una mutazione antropologica e politica nella quale stiamo ora intrappolate: l’avvento del mercato come potenza pressochè assoluta regolatrice delle nostre vite.

Quell’appuntamento costituì anche però un momento di forte conflitto con il resto dei movimenti misti, perché in più occasioni noi femministe stigmatizzammo l’uso di linguaggio, pratiche e simbolico bellico nel seno stesso di parti di movimento altermondialista, nei confronti dei quali ci dichiarammo totalmente e definitivamente in disaccordo e dopo il G8 Maschile Plurale e Uomini in cammino scrissero un documento di forte disagio circa le pratiche di piazza muscolari.

Un pezzo di femminismo italiano sottovalutò questa nostra analisi e profezia: nel maggio 2001 un gruppo di allora giovani della Libreria delle donne di Milano ci invitò a spiegare cosa ci muovesse a organizzare un momento precedente e separato (non separatista) sulla globalizzazione: le “maggiori” ci dissero che questioni come la globalizzazione erano fuori dall’orizzonte del “vero femminismo” decidendo la cancellazione di quel pezzo di storia e di pratiche, che invece purtroppo si rivelarono corrette e anticipatrici.

Oggi apprendo che Luisa Muraro su «Via Dogana» ragiona di violenza e uso della forza sostenendo che esistono occasioni in cui la violenza può essere giusta.

Si tratta di una affermazione che reputo grave, da parte di una femminista e di una filosofa.

Scrive Muraro: «La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.

La constatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all’ideale dell’uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.

Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla».

Penso che aperture, più o meno ambigue o possibiliste, verso l’uso della forza o della violenza, giustificata in certi ambiti, sia pericoloso perché genera derive incontrollabili. E’ un luogo comune purtroppo diffuso quello secondo il quale la violenza che fai tu è giusta: cito esempi lontani tra loro ma unanimi su questo aspetto come gli ultras, i brigatisti neri e rossi, i fondamentalisti di tutte le religioni che ritengono che una certa dose di violenza serva a tenere in riga le donne, i casseur, i black block, una certa giurisprudenza, che ammette la legittimità di una certa forzatura sulla donna nel rapporto sessuale, considerando ambiguo il desiderio femminile.

Mai l’umanità è stata animata all’unisono dallo stesso sogno di pace, giustizia ed equità, ma non per questo dobbiamo derogare sulla legittimità della violenza solo perché oggi le ingiustizie sono, o ci sembrano, più grandi. La violenza è violenza: sempre stupida, sempre distruttiva. La violenza intelligente è un ossimoro.

Se si comincia a derogare sull’uso della violenza, magari invocando la rabbia o la disperazione come legittimo motivo per abbandonarvisi o servirsene, pensando che esista una modica quantità tollerabile (se si sta dalla parte giusta) abbiamo perso già in partenza la scommessa del cambiamento, che ha tra i suoi fondamenti il senso del limite, la responsabilità, e l’esclusione della violenza dall’orizzonte della vita e della felicità.

Abbiamo perso perché rinunciamo alla condivisione, dal momento che la violenza è pratica che salda individualità blindate e deprivate sensorialmente che non dialogano ma si uniformano, militarizzando e gerarchizzando corpi e menti.

La paziente (di certo faticosa) ma anche divertente e creativa pratica nonviolenta costruisce invece sguardi, visioni, realtà, politiche divergenti, inclusive, felicemente conflittuali.

Scrive Vandana Shiva, che di certo non accademicamente disserta sulle violenze del mondo: «La pace non si creerà dalla armi e dalla guerra, dalle bombe e dalla barbarie. La violenza è diventata un lusso che la specie umana non può più permettersi, se vuole sopravvivere. La nonviolenza è diventata un imperativo per la sopravvivenza».

http://www.monicalanfranco.it,www.altradimora.it,www.mareaonline.it, http://www.radiodelledonne.org

UNA BREVE NOTA

Il mio disaccordo con Monica è grande: mi sembra il caso di motivarlo ampiamente e mnon solo di fare un breve commento. Perciò fra due-tre minuti inserirò nel blog le mie osservazioni in forma di post (db)

One Comment

Lascia un commento
  1. Marco Pacifici / Mar 9 2012 22:20

    So molto bene di essere un Animale Umano:so molto bene che ogni volta che ho dovuto alzare una mano per difendere la nostra gente (non me stesso,la mia capacita di incassare torture e corrente elettrica(forse qualcuno dovrebbe andare sul blog “polvere da sparo baruda .net ” di Valentina Perniciaro e talvolta Oreste Scalzone che la Memoria gli ,anzi le fa difetto:per anni in questo meraviglioso paese è stato/a sistematicamente accettata la tortura e l’assassinio in nome della “lotta al terrorismo”) è dimostrata dal non poter mai potuto avere figli geneticamente miei, sti cazzi tutti i cuccioli sono miei figli…) il dolore di fare un gesto che mi ripugna, un gesto violento ,ancora assilla i miei sogni:ma credo i miei incubi sarebbero stati insopportabili se in nome della mia “etica” avvessi girato lo sguardo da un’altra parte. Marco Pacifici.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.