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2 dicembre 2014 / miglieruolo

Stoffa controversa

dal blog di lunanuvola  di Maria G. Di Rienzo

(“Saudi Activist Manal Al-Sharif on Why She Removed the Veil”, intervento di Manal Al-Sharif per Advancing Human Rights, 30 ottobre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Manal è una delle più famose attiviste per i diritti umani delle donne del suo paese, l’Arabia Saudita, dove ha guidato la protesta contro il divieto di guidare automobili per le donne ed è stata arrestata per questo.)

Nessun pezzo di stoffa nella storia ha causato più controversie del velo. Molte donne musulmane sono costrette ad indossarlo ogni giorno. L’hijab ha uno spettro, ovviamente, che va dalla sua incarnazione più radicale – il niqab che copre l’intero volto – a fazzoletti da testa portati in modo sciolto.

L’Arabia Saudita è seconda solo all’Iran nell’usare il potere del bastone (il Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio o la polizia religiosa) per imporre una particolare forma e un particolare colore dell’hijab a tutte le nostre donne. E quando dico “tutte le nostre donne” intendo proprio tutte: saudite e non saudite, musulmane e non musulmane.

Manal

Considerando solo la dimensione del paese si capisce che ciascuna regione dell’Arabia Saudita contiene una gran varietà di culture, dialetti e sette religiose. Sino agli anni ’70 le donne qui erano libere di indossare più o meno qualsiasi cosa volessero.

Le beduine indossavano vesti dai colori brillanti e i burqa, ma lasciando esposti la scriminatura dei capelli e gli occhi sottolineati dal kohl. Le donne di città indossavano i loro abaya, la stoffa arrotolata attorno alla vita. Le donne arabe indossavano hijab colorati e le donne non musulmane vestivano modestamente e non portavano velo.

Le donne del villaggio di mio padre, Tarfa a nord ovest della Mecca, indossavano abiti colorati con sciarpe bianche e rosa attorno alla testa e al collo. Come le beduine, lasciavano esposti i loro volti e parte dei capelli.

Tutto questo cambiò quando l’ondata di fanatismo religioso sostenuta dallo stato colpì la nostra società. L’abaya nero e la faccia coperta furono imposte a tutte le impiegate statali, nelle scuole e nelle università. E l’hijab nero fu imposto a tutte le donne non saudite, al di là del loro credo. Divenne impensabile nella mia città natale, la Mecca, vedere una donna che non indossasse il niqab: rivelare il tuo viso era un tabù sociale e haram (proibito, ndt.) agli occhi della religione. Volantini che dicevano come il coprirsi il volto distinguesse la donna musulmana dall’infedele furono massicciamente distribuiti durante quest’epoca. Il fanatismo si diffuse sino a toccare i bambini: ben prima che decidessi di togliermi il niqab per sempre, una bimba decenne seduta accanto a me su un aeroplano mi chiamò “infedele” quando sollevai il velo per mangiare un pasto.

In uno dei volantini distribuiti durante il periodo del cosiddetto risveglio islamico si legge:

“Mia sorella musulmana: oggi, tu fronteggi un’incessante e astuta guerra perpetrata dai nemici dell’Islam con lo scopo di raggiungerti e di rimuoverti dalla tua impenetrabile fortezza. Una delle cose che questi nemici dell’Islam tentano di screditare è l’hijab. Alcuni di essi hanno persino detto che la situazione all’Est non si raddrizzerà sino a che l’hijab sarà sollevato dai volti delle donne e usato per coprire il Corano!” Questa medesima ideologia è stata esportata dall’Arabia Saudita tramite il potere del petrodollaro. Io ricordo i giorni della guerra in Bosnia (1992 – 1995), quando l’Arabia Saudita inviava convogli di aiuti agli assediati di Sarajevo. Le persone che si occupavano dei convogli distribuivano hijab alle donne assediate assieme ai cartoni di cibo.

Si arrivò infine al punto in cui l’unica interpretazione accettabile dell’hijab nel nostro paese era che le donne si avvolgessero completamente, faccia e corpo, in un sudario nero. Sebbene per chiunque fuori dai nostri confini una donna saudita fosse indistinguibile da un’altra, i sauditi svilupparono una particolare abilità nel riconoscere quale donna languisse nel nero. Mio padre era in grado di distinguermi fra dozzine di altre ragazze fuori dalle mura dell’università; non mi prese mai per un’altra. Allo stesso modo, non abbiamo mai mancato di riconoscere parenti e amici quanto li incrociavamo sulle strade o alla moschea. Abbiamo sviluppato una grande sensibilità per le caratteristiche e gli attributi di coloro che ci circondano: le loro voci, il modo in cui portano il niqab, i loro occhi, la loro andatura, e persino il tipo di abaya e le borse e le scarpe che indossano.

Dopo di che arrivarono gli anni ’90 portando con loro i canali satellitari e dopo di ciò la svolta del millennio, che annunciava l’evoluzione delle nuove forme di comunicazione: internet e gli smart phones. Almeno, noi si ebbe accesso a punti di vista che sfidavano lo status quo, l’opinione unica che così a lungo ci era stata presentata come unica scelta corretta. Era la sola, ci avevano detto, che seguiva le vie del Profeta e che davvero rappresentava l’Islam. La nostra società conservatrice cominciò a farsi domande e a sollevare dubbi sulle cose che erano state, per molto tempo, imposte a noi come scontate tramite il potere della religione e la benedizione dello stato.

Una delle prime cose ad essere messa in questione fu la ristretta interpretazione wahabita dell’hijab, ma per me personalmente la cosa non fu resa più facile. Quando decisi di rimuovere il niqab nel 2002 dovetti fronteggiare un’amara guerra con la mia famiglia e con la società. Mia madre indossava il niqab durante il periodo del “risveglio islamico” e sebbene non lo usasse quando usciva dall’Arabia Saudita, si oppose al fatto che io lo togliessi a casa. La ragione era sociale, non religiosa: “Figlia mia, nessuno ti sposerà sei mostri la tua faccia!”

Se la gente che incrociavo per le strade della Mecca sapeva che ero saudita mi tributava duri sguardi di disapprovazione. Un giorno, stavo compiendo il tawaf (sette giri in senso antiorario attorno alla Kaaba o Ka’ba, costruzione a cubo coperta di tessuto nero, il luogo più sacro dell’Islam, ndt.) e l’osservatore, il cui compito era regolare i movimenti delle persone, mi rimproverava a voce alta per l’assenza di niqab ogni volta in cui gli passavo vicina. “Copriti la faccia, donna!”, urlava. La terza volta gli indicai con l’indice le persone attorno a me: “Tutte queste donne a volto scoperto, sono disobbedienti anch’esse? O sono solo io ad essere una peccatrice, perché sono saudita?” Completai il resto dei miei giri senza sentire un’altra parola.

Sebbene non indossassi il niqab per strada o sul luogo di lavoro, dovetti prenderne uno a prestito da un’amica per entrare in tribunale, giacché alle donne non è permesso entrare negli edifici governativi con il viso scoperto. Fui anche costretta a portare con me due “verificatori di identità” di sesso maschile per attestare chi ero, nonostante portassi con me la mia carta d’identità.

Sebbene i volti scoperti delle donne potessero essere il più grosso cambiamento ad accadere nella società saudita, non fu l’unico che le donne osarono. Un gruppo di giovani a Jeddah cominciò ad indossare abaya colorati; presto, indumenti in grigio, blu marina e marrone scuro apparvero nei negozi della città. Quando gli stessi colori fecero la loro comparsa a Riyadh, la polizia religiosa lanciò una campagna per confiscarli dai negozi. “Se questa è la loro reazione al marrone e al grigio”, mi chiesi, “come reagirebbero alla vista del rosa o del rosso?” Volevo provare.

Andai al negozio dove mi servivo usualmente e chiesi se potevano farmi un abaya colorato, ma il proprietario rifiutò recisamente: “Se vedono un abaya colorato nel mio negozio, sarò interrogato e maltrattato dagli uomini della polizia religiosa!” Le mie amiche mi indicarono però gli esercizi che erano lieti di accontentare le clienti con stoffe colorate e che consegnavano gli indumenti senza farsi vedere dalla polizia religiosa.

L’altro cambiamento riguardò il simbolismo dell’abaya: il suo significato non era più solo di natura religiosa e sociale. Piuttosto, divenne una faccenda di moda, con tendenze che andavano e venivano come per ogni altro capo di abbigliamento. Vedemmo spuntare disegnatori di moda specializzati nella creazione di abaya, che cominciarono a tenere sfilate per promuovere i loro ultimi prodotti. A seconda della fama del designer, della qualità della stoffa e dei materiali usati per i ricami, i prezzi potevano aggirarsi attorno alle decine di migliaia di riyal al pezzo. Diversi tipi di abaya emersero per adattarsi a differenti occasioni: l’abaya per andare al lavoro o a far la spesa era caratterizzato dalla praticità, mentre gli abaya disegnati per le occasioni speciali erano caratterizzati dai ricami e dal lusso. C’erano persino abaya invernali e abaya estivi.

Nonostante tutti questi cambiamenti, le forze statali continuarono ad imporre l’abaya nero in pubblico. I loro sostenitori dissero che ciò aiutava a preservare la virtù ed era un’affermazione della sharia, o legge islamica. Ciò su cui sorvolavano era che l’imposizione di un abito specifico ad una parte della popolazione era un precedente che non si era mai dato nell’intera storia del paese. La forma e il colore dei vestiti erano una cosa su cui la società decideva per sé da lungo tempo e alle autorità importava assai poco cosa ne risultava, fintanto che era decente.

L’imposizione dell’abaya nero è innaturale; non rappresenta null’altro che un’ostruzione alla vita normale e alla naturale evoluzione che occorre negli usi delle popolazioni e nei loro modi di vestire, qualcosa che storicamente è basato sui bisogni delle persone e sui cambiamenti di circostanze.

 

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